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Gabriel Omar BATISTUTA ||| La storia del RE LEONE

54:32
 
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Quando raccontiamo le storie dei grandi campioni, quando cerchiamo di riannodare il filo

delle loro imprese, ci focalizziamo spesso sui gesti tecnici. Sul colpo a effetto, sul numero,

sulla giocata che cattura l’attenzione quando meno ce l’aspettiamo. Facciamo

inconsapevolmente passare in secondo piano un aspetto che invece è fondamentale per

tutto questo: il corpo. Per ogni gesto tecnico che vediamo, dietro c’è un corpo che deve

non solo assecondarlo, ma proprio plasmarlo. Non è solo questione di mente, di intuito,

della capacità di leggere in anticipo ciò che sta per accadere. C’è anche un corpo da far

funzionare: la giusta coordinazione, lo scatto, il modo di arrivare con i piedi e le gambe sul

pallone prima di calciarlo in rete. E sono corpi, quelli dei calciatori, che vengono martoriati

dallo sforzo. Una fatica che si protrae per anni, una fatica diversa da quella che siamo

abituati a riconoscere in maniera naturale: non è lo sforzo di una persona qualunque che

si alza presto per andare a lavorare i campi, un tipo di pressione che riscontriamo in modo

immediato, che facciamo nostra per empatia, che ci è familiare. Un pensiero comune è

che quelli sono milionari, che è giusto che fatichino ed è ancor più giusto che non si

lamentino. La verità è che i calciatori, come tanti altri sportivi, portano il loro corpo a un

grado di esasperazione talvolta irreversibile. Ogni scatto, ogni conclusione, ogni colpo di

testa, fa alzare l’asticella dell’usura. E poi ci sono i casi estremi, quelli dei calciatori che,

per un motivo o per un altro, finiscono per avere ripercussioni sulla loro vita dopo il calcio.

È il caso di due meravigliosi centravanti che hanno attraversato gli anni Novanta: nel

momento in cui uno dei due iniziava a vivere il momento più difficile, quello che lo avrebbe

poi portato a lasciare prematuramente il calcio, l’altro sbocciava, meraviglioso, bellissimo.

Pur di rinunciare al dolore alla caviglia, pur di riuscire ad avere una vita normale, Marco

Van Basten un giorno decise – sbagliando tragicamente - di farsela bloccare, di rinunciare

alla piena mobilità. Era, secondo lui, il prezzo da pagare per tutti quei tacchetti che

gliel’avevano martoriata. Ma oggi non è di lui che vi voglio parlare, ne del fatto che le cose

per Van Basten sarebbero forse potute andare diversamente, o forse no...Vi parlo di un

uomo che ha legato la propria carriera a un certo tipo di irruenza fisica, un impatto

primordiale con gli avversari e con il pallone, inteso come oggetto da calciare con tutta la

forza che aveva in corpo. E che si è ritrovato, una volta lontano dai riflettori, a dover fare i

conti con delle cartilagini ormai svanite, con il rumore delle ossa che si toccano, con i

dolori allucinanti che tutto questo comporta. Quello tra Gabriel Omar Batistuta e il calcio

non è mai stato un rapporto di amore. È stato un centravanti di mestiere, perché così ha

interpretato lo sport: una professione da onorare, dando in cambio tutto quello che aveva,

cartilagini comprese. E per quella magia che avvolge il mondo del calcio, in cambio ha

ricevuto puro amore.

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delle loro imprese, ci focalizziamo spesso sui gesti tecnici. Sul colpo a effetto, sul numero,

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inconsapevolmente passare in secondo piano un aspetto che invece è fondamentale per

tutto questo: il corpo. Per ogni gesto tecnico che vediamo, dietro c’è un corpo che deve

non solo assecondarlo, ma proprio plasmarlo. Non è solo questione di mente, di intuito,

della capacità di leggere in anticipo ciò che sta per accadere. C’è anche un corpo da far

funzionare: la giusta coordinazione, lo scatto, il modo di arrivare con i piedi e le gambe sul

pallone prima di calciarlo in rete. E sono corpi, quelli dei calciatori, che vengono martoriati

dallo sforzo. Una fatica che si protrae per anni, una fatica diversa da quella che siamo

abituati a riconoscere in maniera naturale: non è lo sforzo di una persona qualunque che

si alza presto per andare a lavorare i campi, un tipo di pressione che riscontriamo in modo

immediato, che facciamo nostra per empatia, che ci è familiare. Un pensiero comune è

che quelli sono milionari, che è giusto che fatichino ed è ancor più giusto che non si

lamentino. La verità è che i calciatori, come tanti altri sportivi, portano il loro corpo a un

grado di esasperazione talvolta irreversibile. Ogni scatto, ogni conclusione, ogni colpo di

testa, fa alzare l’asticella dell’usura. E poi ci sono i casi estremi, quelli dei calciatori che,

per un motivo o per un altro, finiscono per avere ripercussioni sulla loro vita dopo il calcio.

È il caso di due meravigliosi centravanti che hanno attraversato gli anni Novanta: nel

momento in cui uno dei due iniziava a vivere il momento più difficile, quello che lo avrebbe

poi portato a lasciare prematuramente il calcio, l’altro sbocciava, meraviglioso, bellissimo.

Pur di rinunciare al dolore alla caviglia, pur di riuscire ad avere una vita normale, Marco

Van Basten un giorno decise – sbagliando tragicamente - di farsela bloccare, di rinunciare

alla piena mobilità. Era, secondo lui, il prezzo da pagare per tutti quei tacchetti che

gliel’avevano martoriata. Ma oggi non è di lui che vi voglio parlare, ne del fatto che le cose

per Van Basten sarebbero forse potute andare diversamente, o forse no...Vi parlo di un

uomo che ha legato la propria carriera a un certo tipo di irruenza fisica, un impatto

primordiale con gli avversari e con il pallone, inteso come oggetto da calciare con tutta la

forza che aveva in corpo. E che si è ritrovato, una volta lontano dai riflettori, a dover fare i

conti con delle cartilagini ormai svanite, con il rumore delle ossa che si toccano, con i

dolori allucinanti che tutto questo comporta. Quello tra Gabriel Omar Batistuta e il calcio

non è mai stato un rapporto di amore. È stato un centravanti di mestiere, perché così ha

interpretato lo sport: una professione da onorare, dando in cambio tutto quello che aveva,

cartilagini comprese. E per quella magia che avvolge il mondo del calcio, in cambio ha

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